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Mar 28, 2025

Opus incertum: mosaico di una crisi

Contributo di
Marco Galvagni
Lo sguardo di un operaio su una cava del quadrilatero del porfido (Marco Galvagni, 2018).

K: «È dura, è pietra, ma il primo giorno non ho sentito nulla».

La cava è un ambiente a cielo aperto costituito da pareti di roccia scolpite a gradoni alti quindici metri. La risorsa è il vero contenuto del paesaggio, sfuggente nel suo continuo mutamento, insalubre e pericoloso nell’esperienza professionale. Il lavoro si svolge sotto al sole, fra le polveri delle pale e dei camion; se piove, sul fango. Le condizioni sono dure. Strade interne collegano il piazzale deputato al movimento di mezzi, corpi e rocce. La coltivazione dei lotti inizia dall’alto, rimuovendo i suoli e la vegetazione per procedere con l’estrazione ai livelli inferiori, fino ai ribassi. Nella sua trasformazione, la montagna viene abbattuta da cariche d’esplosivo inserite alla base dei gradoni o tramite il disgaggio degli strati più cedevoli con le escavatrici. La parete crollata è raccolta dalle pale meccaniche, dislocata alle postazioni degli operai o caricata sui camion. La seconda fase è la cernita del materiale, la divisione degli scarti e lo sfaldamento dei blocchi, eseguito dai manovali tramite una mazza a due facce, l’una piatta e l’altra appuntita. Le lastre ricavate vengono destinate alle seconde lavorazioni, non più manuali ma a macchina, svolte in cava o esternalizzate. Gli addetti alle trance idrauliche spaccano i pezzi in varie misure con gesti rapidi e ripetuti. Lo scarto della lavorazione, un tempo ammassato in enormi discariche discendenti dalle cave, viene frantumato e venduto. Il ciclo si conclude con la posa dei manufatti, generalmente usati nel rivestimento di strade e spazi urbani, pubblici e privati. Una delle principali tecniche compositive è il mosaico in porfido – noto come opus incertum, “opera incerta”. Il posatore usa pezzi di lastre irregolari per colori e forme. Il disegno non è preimpostato ma progressivo. I margini di ogni lastra dettano l’incastro delle altre.

K: «Quando sono arrivato non parlavo italiano. Stavo vicino Ascoli Piceno. Lavoravo in una stalla: venti ore tutti i giorni con un pasto, dovevo mungere cento mucche, pulire il letame e sfamarne centocinquanta. Dopo due anni li ho minacciati con la forca, per farmi capire. Non era vita. Poi sono venuto qua».

Monte Gorsa (Marco Galvagni, 2015).

Il quadrilatero del porfido è uno dei più importanti giacimenti di pietre naturali da pavimentazione. In dieci chilometri quadrati sono attive una settantina di cave, centinaia d’imprese [1]. L’estrazione si concentra in quattro comuni della provincia di Trento – Albiano, Lona Lases, Fornace, Baselga di Piné –, proprietari dei siti e responsabili dei canoni e delle concessioni pubbliche. L’organizzazione industriale, per quanto polverizzata, gestisce la risorsa in forme lobbistiche, calmierando i costi della filiera. La compenetrazione fra amministrazioni e imprenditoria è storica e le concessioni da sessant’anni sono controllate da una cerchia di società che nel tempo ha esteso i suoi affari anche all’estero. Esplosa nel secondo Novecento, la monocoltura estrattiva ha permesso di «trasformare la pietra in pane» [2], arginando lo spopolamento in una delle aree alpine più povere, ma confrontandosi con consistenti impatti ambientali, sociali e sanitari [3]. La crisi del settore è cominciata nel 2006. Il crollo del mercato edilizio nel 2008 ha esasperato le debolezze interne, sfociando in una concorrenza più marcata. La flessione ha ridimensionato le certezze. L’occupazione è calata progressivamente. Oggi nelle cave vengono stimati circa 400 addetti, alcune altre centinaia lavorano nell’indotto.

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Il porfido trentino ha due qualità principali: una durezza eccezionale e una stratificazione naturale che permette di ricavare manualmente lastre, da cui a loro volta è possibile ottenere cubetti, cordoni, smolleri, binderi, piastrelle e altri prodotti [4]. Il lavoro prevede l’esercizio d’una forza fisica moltiplicata da mezzi e strumenti. Nella frantumazione la percezione di una certa durezza incontra la percezione di una certa fragilità, affinché la seconda superi la prima.

K: «È vero... ci sono i macchinari. Perché allora non inventi un manovale? Lo può fare l’uomo...».

Dopo un’esperienza nel porfido allo scopo, come tanti giovani, di guadagnare in fretta, Pietro ha aperto un’azienda agricola. Riflette sull’occupazione precedente, paragonandola a un annullamento della persona. La descrizione del lavoro alle cubettatrici diventa tecnica narrativa in cui il suono e l’onomatopea esprimono meglio delle parole il ricordo incorporato. Le variazioni tonali di voce evocano rumori ripetitivi e ritmi accelerati, che sembrano ormai scolpiti nella memoria. «È alienante, un’alienazione, alienante... Pensa fare quadrati di sasso tutto il giorno per sette, otto mesi l’anno, cinquanta, quaranta quintali al giorno: “Tin tom pom, tin ton, tin ton ton”... O i manovali, sfaldare un blocco come questo tavolo: “Bum bum bum”. Aprirlo, tutto a peso, “bim bum e bim”».

«Negli anni Sessanta si lavorava manualmente, poi, lentamente, la tecnologia ha sollevato un po’ la fatica» rammenta l’imprenditore. «Per dieci anni ho fatto il macchinista ferroviario, poi la pietra m’ha richiamato e sono tornato alle mie origini. Negli anni Ottanta sono state rivestite le più belle piazze del mondo, significa che la pietra non ci tradisce mai ma noi non dobbiamo tradire la pietra, perché dalla pietra noi abbiamo avuto la vita, abbiamo avuto tutto».

«A sedici anni andavi lì: ti davano quanto guadagnava un maestro. [...]» ricorda Pietro. «Tanti giravano senza patente, ragazzoni di diciassette anni che avevano già i soldi per la macchina. E come fai a mandare uno a scuola, a dirgli studia? Io ero a partita iva, pensavo fosse redditizio, invece non era così redditizio e sicuro, saltano schegge, fatichi, non parli con nessuno. A cinquant’anni se non sei morto di silicosi sei bruciato... hai l’annullamento totale della persona [5]».

«Vai nei cimiteri», mi dice Carolina, figlia di un operaio nato nel 1926: «Trovi due generazioni crepate di silicosi. Tanto, braccia più giovani ce n’erano sempre, più giovani di mio papà, che però battevano forte – quello contava – non arrivavano a sessant’anni. Tornavano la sera e s’addormentavano a tavola. Non potevi parlare di niente. Tutto diventava difficile. Allora la silicosi cos’è?». Una malattia della famiglia.

Cave di Albiano (Marco Galvagni, 2015).

Vigilio scandisce il discorso a colpi di mano sul tavolo; è stato sindaco di Lona Lases dal 1985 al 1995. Ora in pensione, il destino del padre l’ha allontanato presto dalle cave. «A 14 anni sono diventato capo famiglia. Prima di scuola vendevo uno zaino di castagne, andavo a Trento coi vestiti regalati e un pezzo di formaggio perché avevo la mucca [...]. Mio papà contava i cubetti, ora si fa a quintali. Quando s’è ammalato è stato tre anni in ospedale. Dicevano fosse tubercolosi. Ma gli era uscito sangue dai polmoni tre volte. Allora ha detto: “Te non guardare se sono tuo padre. Io ho la silicosi. Quando muoio fammi tagliare”. Ed è stata la prima autopsia nel settore».

Albiano, 14 novembre 2015. Al convegno sindacale La tutela degli infortuni e delle malattie professionali nel settore del porfido interviene un avvocato veronese [6]: «Vedendo i dati, o il problema degli infortuni e delle malattie professionali finora è stato sottaciuto per paura di perdere il posto, o non esiste. Vedo però che siete nella ristrettissima classifica delle lavorazioni usuranti particolarmente invalidanti e con effetti perduranti [...]. Non giudico: sicuramente può esserci maggiore attenzione. Ma il fatto che molti medici di base invitati non ci sono mi fa pensare che sia anche un tentativo di chiudere gli occhi di chi ha l’obbligo di denunciare».

Carolina: «Il sindaco diceva: “Non si mangia coi libri, si mangia coi sassi”. Adesso la domanda è: la cava ci dà da mangiare?».

K: «Ti fermavano per strada per offrirti lavoro. Fa terrore quando vedi cosa si fa. Non sapevamo che quelle montagne mangiano uomini. Le hai viste? Sono fatte con le mani eh!».

> 30 APRILE 1969: «“LA CAVA È IL NOSTRO ALTARE” ERA LA SCRITTA E IL MOTTO, SIMBOLO DELLA DURA E RISCHIOSA FATICA» [7].

Lavorare in cava implica una serie di rischi economici e sanitari che risultano alimentati dalla formula contrattuale del cottimo. Oltre una certa quantità di quintali prodotti, alla paga sindacale subentra una retribuzione legata alla quantità eccedente – un aspetto che inevitabilmente comporta maggiori stress fisici e una continua competizione fra colleghi e con sé stessi. Il cottimo funziona in modo autopoietico: dall’abilità dell’operaio dipende la qualità del materiale e dalla qualità del materiale l’abilità dei lavoratori – i manovali più contesi sono chiamati “spaccamontagne” e in passato i cubettisti si spostavano fra le cave più remunerative. La bontà della roccia influenza i ritmi, i rischi, i guadagni. Il suo conferimento è regolato da rapporti gerarchici, al cui vertice si collocano il titolare e un palista di fiducia [T]. La materia grezza diviene così mediatrice di ruoli sociali, rapporti di potere e pratiche di inclusione o esclusione. Fornire porfido scadente spesso corrisponde a una forma di controllo del dissenso o di un’insubordinazione [8]. Gli effetti, evidentemente, travalicano la dimensione lavorativa e impattano su scelte personali, amicizie, consensi e facoltà di espressione.

K: «Facevamo la gara: chi ne fa di più, chi guadagna di più. Magari il palista faceva un po’ la differenza: se era un suo vicino o suo fratello... Lo scarica lì. Devi arrangiarti a farlo. Lo rompi... lo spacchi, guai se lo rovini. Se pesa un quintale chissenefrega, lo alzi. Il capocantiere non serve, lo sanno che m’ammazzo da solo, senza che mi spingano. Più ne fai peggio è. Pensi: “L’anno prossimo cambio”. Cosa vuoi cambiare. È andata la vita. Adesso ho 60 anni; se obietto è semplicissimo rispondermi “vattene”. E dove vado? Chi mi vuole, chi mi prende, se sono consumato del tutto?».

Lavorazione e sfaldatura manuale del porfido (Marco Galvagni, 2015).

La sensazione è d’aver sbagliato strada. Forme inverse, da convesse a concave, ritagliano il profilo d’un vasto paesaggio che lentamente acquisisce particolari. Su di un lato vedi le voragini, mentre sull’altro una valletta costeggia un’incisione alta centinaia di metri e lunga un chilometro. Nell’area antistante spuntano le tettoie della zona artigianale, i piazzali e i capannoni con il pietrame raccolto in mucchi, in casse, fra benne arrugginite, a segnalare il limite incerto fra proprietà pubblica e privata. Un palista mi spiega la situazione. Sono giorni accesi dalla vertenza sul contratto di settore, che subentrerà a quello scaduto nel 2014. «Da noi non c’è l’acqua potabile né i bagni, ma almeno ci danno un buon aumento e mangi in mensa. Là fioriscono ‘i [gli] artigiani. Loro non han niente, come i cani. Coi so’ [loro] guanti, con scarpe da ginnastica che spacca pietre... senza tredicesima, assegni familiari, a paga fissa. Li fanno lavorare a ore, quando vogliono: sabato, domenica, giorno, notte. Neanche uno è assicurato più di due ore. Senza ferie, senza permesso. Artigiani? Ghé manca sól le catene [gli mancano solo le catene]. Son carcerati e basta».

K: «È dura, è pietra, ma il primo giorno non ho sentito nulla. Ho fatto un blocco di tre metri per due. Poteva portarmi qualcosa di più leggero no? Ma devi imparare: o mangi questa minestra o vai via. Il secondo giorno mi sono seduto, non riuscivo ad alzarmi: avevo male a tutti i muscoli. Però pian piano, noi umani siamo così, t’abitui; guai dopo chi voleva allontanarmi dalle cave. Però è una ricchezza sulle spalle d’altri. Il discorso è tutto qui. È quello che fa male».

*K. è l'iniziale di Kamber, un ex manovale. Licenziato dopo un infarto, Kamber non ha trovato altre mansioni nel porfido. Nel 2009, assieme ad altri operai ed ex operai, ha fondato il Comitato Dignità, con l’obiettivo di assistere i lavoratori contrastando ogni discriminazione nei confronti degli operai stranieri, all’epoca i più colpiti dai licenziamenti.

CONTRIBUTO DI

Marco Galvagni è un giornalista pubblicista indipendente con formazione antropologica. Si interessa delle relazioni tra uomo e ambiente, comunità e paesaggio.

RIFERIMENTO

Questo articolo è un estratto di Alea: Fatica (2021), che fa parte del ciclo di volumi in italiano raccolti in Archivio 2124.

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[1] Nel 2014 le cave attive erano 90. Considerando quelle inattive o esaurite è probabile che il numero totale delle cave sul territorio superi le 100.

[2] Pane di pietra, documentario, 1978.

[3] Avviate nei primi del Novecento, le attività nelle cave conoscono il loro sviluppo dopo gli anni Cinquanta, quando il porfido diviene sempre più centrale nel sistema di vita locale. Negli anni Trenta l’estrazione è un lavoro stagionale integrativo all’economia montana – agricoltura e pastorizia di sussistenza, emigrazione non permanente. Gli anni Sessanta vedono invece le grosse ditte extraregionali ritagliarsi un ruolo nella commercializzazione e lasciare ai locali la gestione delle cave – in diversi casi gli imprenditori diventano sindaci e politici locali. Negli anni Settanta la meccanizzazione industriale comporta una crescita esponenziale degli scavi, con nuovi problemi legati alle discariche e alla desertificazione del paesaggio. Nello stesso decennio le cave attraggono lavoratori meridionali, si registrano lotte sindacali per la sicurezza e i diritti sul lavoro, e si formano i primi comitati di tutela ambientale; vengono inoltre scritte la prima legge provinciale e il primo contratto del porfido. Negli anni Ottanta inizia il fenomeno dell’immigrazione internazionale, che continuerà per trent’anni. I nuovi operai provengono da Marocco, Balcani e Cina. Negli anni Novanta si osservano i primi segnali di crisi e riorganizzazione della filiera, che in parte viene esternalizzata; vari operai restano in cava come lavoratori autonomi e, mentre tra il 1995 e il 2015 la produzione cresce da 1.2 a 1.7 milioni di tonnellate, i dipendenti passano da 1.298 a 1.055. Nel frattempo, diverse imprese locali si espandono in Sudamerica, Bulgaria, Marocco e Cina. Il 24 novembre 2000 il paese di Lases è scosso da un’evacuazione innescata dai movimenti della frana dello Slavinac, a monte dell’area cave. Dal 2003 al 2007 nuove frane interessano l’altro fronte della montagna. Fra il 2012 e il 2013, Albiano e Lases perdono il 33% delle maestranze. Nel 2016 il numero di dipendenti nelle cave è di poco superiore a 500.

[4] Questa caratteristica è dovuta al veloce processo di raffreddamento delle formazioni effusive di magma acido nel periodo geologico del Permiano.

[5] La silicosi è una pneumopatia ambientale-lavorativa legata all’inalazione di microparticelle di silice (quarzo), di cui il porfido è composto fino al 75%. La patologia provoca cristallizzazione e fibrosi polmonare e ha diverse fasi che implicano affaticamento, bronchiti, danni polmonari, insufficienze respiratorie e cardiache. Detta “prussiera”, i più esposti erano gli operai adibiti alle mine a fornello (stol), il sistema di abbattimento dei fronti cava tramite l’ingresso e lo scavo di gallerie per piazzare la dinamite. Dagli anni Settanta la respirazione delle polveri viene ridotta bagnando i piazzali di lavorazione.

[6] Nel 2020 nell’intero settore estrattivo della Provincia di Trento si sono verificati 11 infortuni, di cui 10 nel comparto del porfido.

[7] Casetti A., Storia di Albiano.

[8] Una consuetudine ritorsiva che in passato i locali definivano “camorra”.

Thesaurus:
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Palista: Il conducente della pala meccanica, incaricato di distribuire il porfido grezzo abbattuto dai fronti cava.

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